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venerdì 30 maggio 2014

MIRALFIORE Un grande respiro al centro della città

Oggi abbiamo dentro il cuore di una città di 90000 abitanti un pezzetto di paesaggio agrario marchigiano storico, con filari di peri e aceri a cui erano maritate le viti, e lunghe strisce di seminativo tra i filari, abbiamo ancora salici lungo i fossi, e in tutto questo si scopre che esiste una piccola ricchezza floristica, un abbondante popolazione di gladiolo, giacinto romano, alcune orchidee, nascosti tra le alte graminacee che ondeggiano al vento..
E’ la bellezza di un grande campo che si muove sotto l’azione del vento e cattura l’occhio, donando gratuite sensazioni minuscole dal grandissimo effetto sull’anima.
La complessità e la ricchezza biologica e storica del parco pongono il problema di come gestirle e fruirle.
Lo abbiamo voluto libero quanto bastava per potercisi sedere, sdraiare, per giocarci, farci merende, ma è evidente che alcune aree sono più delicate e dovremmo usarle senza danneggiarle per conservare quella bellezza che il parco ha per tutti.
Capire che in alcuni tratti di prato sarebbe bene non stendere coperte per non schiacciare i fiori, e non cogliere quei fiori affinché altri possano goderne, è un grande avanzamento culturale, dall’uso egoistico del parco ad un uso che ammetta il diritto di altri di godere delle stesse cose di cui abbiamo goduto noi.
Non si dovrebbero cogliere le orchidee appena sbocciate, nessun altro le vedrebbe più.
Non si dovrebbe venire al parco con le sporte da riempire di pere, di cachi, di fichi, portandosi via tutto. Un frutto si può cogliere e mangiare, prenderli tutti è un gesto di grande arroganza e rapina.
Il problema più grande del parco è la qualità della fruizione.. Direi che è l’educazione che si chiama anche rispetto.
I cestini sono onnipresenti, eppure ogni giorno si devono raccogliere rifiuti , dappertutto…
Che disprezzo intollerabile verso tutto e tutti. Ci agisce così non si merita il parco. Dovrebbe rimanere a casa propria!




Appunti tratti dalla relazione di Andrea Fazi tenuta il 3 maggio 2014 alla biblioteca Bobbato sul Parco Miralfiore di Pesaro.

mercoledì 21 maggio 2014

Essere secchioni? Conta più del talento. I nostri studenti non sanno ammetterlo.

Steve Jobs la chiamava “fame”,in italiano si potrebbe dire “impegno”, i ricercatori dell’Ocse l’hanno misurato come hard work. Nello slang degli studenti, è l’essere “secchione”, per i quindicenni meglio tradotto in nerd.
Si tratta di una variabile visibilmente trascurata dai ragazzi italiani e che, a leggere gli ultimi dati diffusi dall’Osservatorio Ocse-Pisa, potrebbe contribuire a fare la differenza nella scuola italiana almeno quanto i tablet, le lavagne elettroniche, la lezione non-frontale e tutte le innovazioni di cui si sente comunque il bisogno: si tratta dello studio.
Essere secchione non solo è faticoso ma, si sa, non è cool, l’impegno stanca e studiare anche, meglio affidarsi al talento, come da modelli televisivi e non solo. O a un colpo di fortuna, aprendo il pacco giusto che ti cambia la vita. Lo pensa la stragrande maggioranza degli studenti italiani.
Alla domanda “studiando molto potete avere risultati migliori in matematica?”, solo uno studente su dieci risponde che studiare, impegnarsi, possa portare a migliori risultati. Il resto è appunto talento, fortuna, caso. O spintarella.
Inutile a questo punto aggiungere che nei sistemi scolastici migliori del mondo i ragazzi considerano lo studio e naturalmente il riconoscimento dello sforzo come una parte importante del loro impegno.
Finlandia, Polonia, Canada per non dire i Paesi dell’estremo Oriente, ma anche gli inglesi e gli americani pensano che per riuscire bisogna impegnarsi ed essere un pò secchioni. Solo argentini, colombiani, costaricani e albanesi sono più pigri di noi.
Eppure i nerd alla fine e silenziosamente riescono anche in Italia. Anche se meno di quel che potrebbero, come dice il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che considera il sistema delle nostre imprese penalizzante nei confronti dei laureati.
Nell’ultima rilevazione Almalaurea sull’occupazione dei neo-laureati si legge che a cinque anni dalla fine degli studi il 90 per cento dei dottori ha un lavoro. Un percorso troppo lento e magari incerto, figlio non solo della crisi.
Ma nettamente più felice di quanti, considerandosi senza talento e dunque predestinati a una vita da mediani o a un colpo di fortuna ( o ad una spinta ), hanno deciso di lasciar stare magari dopo il diploma.



Gianna Fregonara dal Corriere della Sera del 12 marzo 2013.

Il nemico nella cameretta

Cari genitori, una domanda molto semplice: “Lascereste i vostri ragazzi uscir soli la notte?”. “Ma siamo matti!” suppongo la risposta. Eppure gli permettete di navigare sul web senza vigilare su dove vadano chi incontrino. Tanto, chiusi nella loro cameretta sembrano al sicuro. Ma le strade telematiche sono molto più pericolose di quelle cittadine. Per le vie reali circolano persone più o meno raccomandabili, ma pur sempre in carne ed ossa, che si espongono in prima persona al riconoscimento degli altri.
In chat navigano invece perfetti sconosciuti, vandali senza nome e senza volto che si permettono di lanciare insinuazioni, offese , e minacce. Celati dietro lo schermo dell’anonimato, procedono impuniti, spesso ignari dei drammi che hanno provocato.
Una ragazza di Venaria, domenica 13 aprile, si è gettata dal sesto piano ma non è la prima né l’ultima vittima di una violenza che ferisce e talora uccide, proprio i più fragili, i più vulnerabili.
Tutti i ragazzi, indipendentemente dal loro aspetto, sono “fisiologicamente” in crisi d’identità. Come brutti anatroccoli in attesa di trasformarsi in cigni, si sentono inadeguati, “sfigati” e soli. Il rischio li attrae, il pericolo li affascina perché vi trovano una misura del loro valore. Ma, anche quando ostentano sicurezza e rivendicano autonomia, vanno protetti dalla loro stessa audacia. Negli ultimi tempi, una serie di casi di suicidio di adolescenti vittime di cyber bullismo ha indotto la commissione “Diritti umani “ del Senato a predisporre un disegno di legge che obblighi i gestori a chiudere i social network ritenuti pericolosi. Una tutela necessaria ma insufficiente se non si responsabilizzano i ragazzi e non si preparano gli educatori, genitori e insegnanti, a intervenire monitorando e filtrando gli scambi in Rete.
Cerchiamo di evitare che la “generazione digitale” si trovi ad essere al di qua e abbandonata a se stessa al di là dello schermo.


Articolo di Silvia Vigetti Finzi pubblicato sul Corriere della Sera del 17 aprile 2014.