In
una palestra milanese un gruppo di bambine dai 6 agli 11 anni sta volteggiando
tra pedane, parallele e assi. Nei loro body colorati appaiono snelle, agili,
elastiche e scattanti.
Commento
con gli istruttori l’ottima forma delle loro allieve ma una ragazzina, che a
nostra insaputa ci sta ascoltando, interviene, picchiettandosi l’addome
leggermente prominente: “Ma io ho la pancia!”. Secondo la pediatra, è una
normale curvatura della spina dorsale, ma per Martina costituisce un
inestetismo che turba la sua fragile autostima.
Se
avesse sedici anni, osserva un chirurgo estetico (preoccupato per le richieste
sempre più precoci di rimodellamento di corpi adolescenziali) quella bimba
chiederebbe un intervento di liposuzione.
E
forse la mamma, pur di rasserenarla, sarebbe pronta a esaudire il suo
desiderio. Per fortuna Martina ha dieci anni e vi è ancora tempo perché impari
ad accettare il suo corpo, imperfezioni comprese. In questi casi il bersaglio
su cui indirizzare accuse, colpe e anatemi è sin troppo facile. Viviamo nella
società dello spettacolo, dove l’apparire è più importante dell’essere e
l’immagine femminile, mentre promuove merci e consumi, veicola illusioni di
successo, felicità, amore e perfezione.
“Può
essere così, devi essere così!” suggeriscono insinuanti messaggi rivolti ai
giovani, i più ricettivi. Ma il controllo con le irraggiungibili divinità
dell’olimpo mass-mediatico è frustante e persecutorio. Eppure è difficile
sottrarsi alle loro suggestioni perché la nostra identità comprende due fronti.
Da una parte abbiamo un corpo vissuto che percepiamo direttamente, dall’altra
un’immagine del corpo che esponiamo al riconoscimento del mondo e, di rimbalzo,
facciamo nostra.
Per
questo non basta che gli educatori rassicurino Martina che il suo corpo è bello
in quanto è dal contesto generale che la bambina s’attende approvazione e
consenso. Solo valori più alti, testimoniati e condivisi, possono convincere i
ragazzi a costruire un’identità complessa, inscritta in una storia di cui siano
autori e protagonisti. E in questa direzione una campagna pubblicitaria,
moralmente corretta ed esteticamente efficace, può costituire la prima mossa.
Dall’articolo della
psicologa Silvia Vegetti Finzi pubblicato sul Corriere della Sera, supplemento
Beauty, di giovedì 7 novembre 2013.
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