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sabato 9 novembre 2013

Oggi rassicurarle può non bastare più.


In una palestra milanese un gruppo di bambine dai 6 agli 11 anni sta volteggiando tra pedane, parallele e assi. Nei loro body colorati appaiono snelle, agili, elastiche e scattanti.

Commento con gli istruttori l’ottima forma delle loro allieve ma una ragazzina, che a nostra insaputa ci sta ascoltando, interviene, picchiettandosi l’addome leggermente prominente: “Ma io ho la pancia!”. Secondo la pediatra, è una normale curvatura della spina dorsale, ma per Martina costituisce un inestetismo che turba la sua fragile autostima.

Se avesse sedici anni, osserva un chirurgo estetico (preoccupato per le richieste sempre più precoci di rimodellamento di corpi adolescenziali) quella bimba chiederebbe un intervento di liposuzione.

E forse la mamma, pur di rasserenarla, sarebbe pronta a esaudire il suo desiderio. Per fortuna Martina ha dieci anni e vi è ancora tempo perché impari ad accettare il suo corpo, imperfezioni comprese. In questi casi il bersaglio su cui indirizzare accuse, colpe e anatemi è sin troppo facile. Viviamo nella società dello spettacolo, dove l’apparire è più importante dell’essere e l’immagine femminile, mentre promuove merci e consumi, veicola illusioni di successo, felicità, amore e perfezione.

“Può essere così, devi essere così!” suggeriscono insinuanti messaggi rivolti ai giovani, i più ricettivi. Ma il controllo con le irraggiungibili divinità dell’olimpo mass-mediatico è frustante e persecutorio. Eppure è difficile sottrarsi alle loro suggestioni perché la nostra identità comprende due fronti. Da una parte abbiamo un corpo vissuto che percepiamo direttamente, dall’altra un’immagine del corpo che esponiamo al riconoscimento del mondo e, di rimbalzo, facciamo nostra.

Per questo non basta che gli educatori rassicurino Martina che il suo corpo è bello in quanto è dal contesto generale che la bambina s’attende approvazione e consenso. Solo valori più alti, testimoniati e condivisi, possono convincere i ragazzi a costruire un’identità complessa, inscritta in una storia di cui siano autori e protagonisti. E in questa direzione una campagna pubblicitaria, moralmente corretta ed esteticamente efficace, può costituire la prima mossa.

 

Dall’articolo della psicologa Silvia Vegetti Finzi pubblicato sul Corriere della Sera, supplemento Beauty, di giovedì 7 novembre 2013.

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