In Italia o ci si iscrive a una scuola di calcio o non
si gioca e già ai bambini di 8 anni viene chiesto di uniformarsi.
Il
problema del nostro calcio giovanile non è che i migliori vanno all’estero. Magari
ne andassero cento, avremmo cento possibilità in più di costruire un buon
calcio. Né che si fa tardi farli debuttare. Una buona squadra non si vede in
base all’età, ma al rendimento dei giocatori. E un 27enne gioca quasi sempre
meglio di un 20ene.
Il
problema dei nostri giovani è che li imbalsamiamo fin da bambini perché sono
diventati il vero affare del calcio. Lo scandalo è che un bambino, in Italia,
per giocare a pallone, può soltanto pagare. O va in una scuola calcio o non
gioca. Centinaia di migliaia di ragazzi militarizzati, spesso sovrappeso, in
tute e magliette autofinanziate, condannati a giocare secondo i comandamenti
dei grandi. Finita la strada, l’oratorio, finito l’estro individuale, finita la
coscienza critica, la selezione naturale, finita la libertà di correre dietro
un pallone perché a otto anni c’è già chi ti chiede, t’impone, di uniformarti.
Il
problema del calcio dei giovani in Italia è questa melassa con cui si dà in
pasto ai genitori l’illusione che i loro figli possano essere campioni
semplicemente perché (pagando) giocano.
E
la terribile forza, insopportabile, con cui i genitori vi si dedicano, convinti
che il calcio non sia il divertimento del bambino oggi, ma il loro prossimo
mestiere.
Cosa
resta della qualità individuale in questo mondo dove si paga per giocare tutti
gli stessi minuti, straordinario socialismo del niente, e dove alla fine non
vince nessuno perché l’agonismo non è etico? Il calcio italiano non pensa ai
giovani, non ne ha il tempo. Sono incidenti di percorso, distrazioni, tornino
quando saranno grandi. Il calcio ha un sacco di altri problemi. Nel frattempo
paghino.
Post tratto
dall’articolo di MARIO SCONCERTI pubblicato dal Corriere Della Sera del 9
luglio 2012.
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